Scritto da Sabrina Santamaria.
- Autore:
Aldo Sisto
- Titolo:
L'alcova tra le pietre
- Casa editrice:
Vitale Edizioni
(Recensione edita nel Bimestrale internazionale "Le Muse"-numero maggio/giugno 2021- Direttrice Maria Teresa Liuzzo- Vicedirettore Davide Borruto)
(a cura di Sabrina Santamaria)
La “collana di perle” bergsoniana non si è incastonata nella mente del nostro poeta Aldo Sisto in quanto secondo il succitato filosofo un girocollo di perle uguali rappresenterebbe in senso metaforico il tempo cronologico scandito solo dagli orologi. Gli attimi eterni rimembrano la beltà di ricordi presenti nelle espressioni del poeta e nella sua memoria riaffiorano vestendo l’effige di una sacralità empirea innanzi, anche, allo sguardo investigativo dei lettori. Il poeta Aldo Sisto percepisce in fondo all’animo suo i “Tintinni a invisibili porte che forse non s’aprono più?”( poesia “L’assiuolo” di Giovanni Pascoli), forse il verso onomatopeico del “chiù” pascoliano riemerge e rivive nel suo nostalgico tormento? Nella raccolta poetica “L’alcova tra le pietre”(Vitale Edizioni,2019) non appaiono i versi dell’assiuolo, ma, sicuramente, è tangibile un richiamo ad alcuni aspetti del decadentismo italiano soprattutto per ciò che concerne la caducità e il simbolismo pascoliani. Il simbolismo trae il suo ordito poetico dalle similitudini floreali e con la fauna, elementi intellegibili che ispirano l’autore Aldo Sisto a forgiare una trasparente metafisica accarezzata dai sensi. Le “corrispondenze con la natura” baudelairiane si riscontrano pienamente nella poetica malinconica del nostro Aldo Sisto; già il titolo “L’alcova tra le pietre” cita un minerale ossia la pietra tuttavia essa è un elemento della natura che si trova per terra e non mostra in sé e per sé né grazia né maestosità allora ci verrebbe spontaneo chiederci secondo quale espediente letterario la pietra potrebbe essere soggetto e oggetto di ispirazione? In questo breve viaggio dentro l’itinerario dell’anima sua la pietra ha una consistenza dura, non è duttile dunque permane nel tempo costituendo una similitudine con i sentimenti del poeta. Le pietre si trovano per terra, nella sabbia o fra i nostri piedi perciò non esprimono nobiltà e basandosi su questa chiave di lettura vi sono analogie con “Myricae”, una delle principali opere pascoliane. Le tamerici, come ci diede a intendere uno dei due grandi decadentisti italiani, sono piante basse perciò i versi pascoliani ebbero come essenza le piccole cose oggetto di meraviglia cosicché, pure, le pietre che circondano l’alcova sistiana di questi componimenti maturi conducono i lettori ai reconditi anfratti ancorati a una pleonastica storia di momenti vissuti. L’alcova è la metafora dell’intimità profonda quindi di un amore viscerale e accostarla alle pietre(che ci suggeriscono l’dea di scomodità) potrebbe risultare ossimorico tuttavia sta a indicare i sentimenti che resistono perfino alle difficoltà che la vita ci presenta e racchiude l’unione imprescindibile di un amore che esiste e si nutre della durezza dei tempi rei oppure di una memento amorosa nascente tra sassi e rovi spinosi: “T’amai perdutamente t’amai i baci sciolti nella tua saliva in quell’alcova tra le pietre.(…) Cessa il miracolo e l’alcova tra le pietre resta lì nello squallor dei sassi percossi ancora dal vento”.( L’alcova tra le pietre pag 4). Alcuni versi si avvicinano ai canti leopardiani infatti l’autore esprime il suo rammarico per le illusioni che affollano i pensieri e la sorte arcigna relega l’uomo a un mesto vivere(per Leopardi era la natura matrigna) la ricerca di significato spicca fra i vari enjambement, nei testi la ragione è l’architrave dove si reggono le sue riflessioni: “ Ahi facile felicità che non rendi felice, illudi e non paghi. Odesi l’uomo urlare di gioia. Odesi l’uomo urlar di dolore. La gioia fu sogno, il dolore fu realtà.” (Quale felicità, pag 6)
Sabrina Santamaria
Scritto da Sabrina Santamaria.
- Autore:
Francesco Terrone
- Titolo:
Il cammino dell'amore
- Casa editrice:
Guida Editore
(Recensione edita nel Bimestrale Le Muse numero Marzo/Aprile 2021- Direttrice Maria Teresa Liuzzo-Vicedirettore Davide Borruto)
(a cura di Sabrina Santamaria)
Le emozioni non le possiamo trasfigurare eternamente e nemmeno le possiamo celare, a maggior ragione quando ci traviamo dinnanzi a un genere letterario come la poesia, il romanticismo diviene protagonista dei versi o, secondo le circostanze, è il testimone privilegiato di odi e canti. Il poeta Francesco Terrone ricalca le orme dell’immensità dell’amore in modo genuino e spontaneo, ma con una forte carica espressiva. Il tempo perduto, tipicamente proustiano, è ricercato, quasi bramato dal nostro autore e la raccolta poetica Il cammino dell’amore(Guida Editori,2019) carezza lievemente la scia di alcuni rimpianti. Egli non si arrende di fronte a un amore ostico o scostante perché il sentimento implica il patimento tanto è vero che se a volte nell’uomo contemporaneo prevale un certo lassismo o laissez faire che ha intaccato anche la dimensione emotiva, bisogna ammettere che ciò accade per il timore di scontrarsi contro il nocciolo duro della sofferenza che perfora il cuore e l’anima. Alcuni componimenti sono ermetici e rimangono impressi nella mente dei lettori in quanto racchiudono iperbolici versi: “Prima mi hai aperto il cuore, poi l’hai cucito con il filo spinato.”(poesia Cuore, pag 69). L’espediente letterario più adoperato dal nostro poeta Francesco Terrone consiste nell’uso delle seguenti figure retoriche del significato: l’iperbole, la metafora, la similitudine, la sinestesia e la metonimia. L’apertura mentale consente all’autore di creare un contatto con l’immensità e l’ imponderabilità, infatti quest’uomo innamorato ansima in una corsa a ostacoli per stringere tra le mani quel fatidico otto al contrario al quale ciascun essere umano a suo modo ambisce. D’altro canto la figura della “fanciulla dalla chioma al vento”( con questo epiteto annovera la donna amata nella poesia dal titolo La mia pelle, pag 55) è la musa ispiratrice di questa commovente raccolta poetica in guisa dell’amore che non riguarda solamente un’effimera scintilla di un sentimento che nasce a prima vista, ragion per cui il legame amoroso messo a nudo dal poeta ha una radice inestirpabile che congiunge la mente, il cuore e l’anima. Lo stile poetico di Francesco Terrone non segue una metrica, la libertà del suo sentire rispecchia la scelta del verso libero senza rime, le anafore sono rafforzative e concorrono a designare l’intensità dei suoi pensieri scevri da ogni possibile parvenza razionale. Il paragone perenne con il mare, il sole, la luna e il cielo dona profondità e, allo stesso tempo, è propedeutico a raffigurare gli stati d’animo e le emozioni affinché possano avere un volto. La poetica in Il cammino dell’amore è al confine fra i sonetti petrarcheschi in cui il sommo poeta girovagava “solo et pensoso”(vedi il Canzoniere di Petrarca) nei meandri più fitti di un amore non corrisposto e il dramma La vita è sogno di Pedro Calderón de la Barca ove il protagonista Sigismondo sposa Stella seppur è innamorato di Rosaura decide di vivere in una sfera intrisa fra sogno e realtà. Il nostro Francesco Terrone è un sognatore o un moderno Icaro (vedi appunto pag 74) che non smette di volare ed egli rischia in ogni istante di rimanere ferito e deluso nonostante tutto non si arrende e non si dà per vinto come un indomabile milite affronta la battaglia dell’amore riconfermando i versi “perché forte come la morte è l’amore” del testo biblico Cantico dei cantici. Il cammino sentimentale dell’autore è virtuoso e attutisce ogni imperfezione o sbavatura perciò è il percorso amoroso stesso che si fregia dell’effigie di un attuale capolavoro.
Sabrina Santamaria
Scritto da Sabrina Santamaria.
- Autore:
Teresina Giuliana Pavan
- Titolo:
Paesaggi dell'anima
- Casa editrice:
Edizioni il Fiorino
(Recensione edita nel Bimestrale "Le Muse"-Direttrice Maria Teresa Liuzzo- Vicedirettore Davide Borruto)
(a cura di Sabrina Santamaria)
Incidere dei versi su un foglio bianco, in tantissime circostanze, può giovare a rielaborare e metabolizzare la sofferenza che si racchiude in ognuno di noi. I patimenti sono un triste corollario, ma mediante il lume e la creatività, elementi che contraddistinguono gli artisti, sono sublimati e si trasformano in un forgiato pathos. L’anima dei poeti brama un catartico verseggiare che accarezza i candidi picchi esistenziali, in cui attimi che sanno di eternità scalano la vetta di una travagliata pace: “(…) Paesaggi dell’anima in cui ritrovo il destarsi del sorriso spento, luoghi della memoria nell’incanto delicato di cromatiche variazioni di vita.”(poesia Ritratto del mio paese, pag 7).
La poetessa Teresina Giuliana Pavan in “Paesaggi dell’anima”(Edizioni Il Fiorino, 2014) mette a nudo la sua vocazione di ricucire i sottili fili della sua memoria infantile e adolescenziale mediante il suo ritornar alla memoria il telaio esistenziale ripara l’ordito che sembra sgualcito da un’epoca moderna che entra in collisione con il suo ritmo naturale ben lungi dall’ubiquità odierna. Alcuni paesaggi della sua terra natia Bosaro, in provincia di Rovigo, coadiuvano a introdurre il lettore nel mondo interiore della poetessa. L’empatia effonde un melodioso afflato tanto è vero che i lettori si immedesimeranno nei racconti in versi che rendono sommesso e solenne il suo stile poetico infatti in questa silloge il vessillo e le vestigia del passato ammantano di una rinnovata autenticità anche il presente: “(…) nel riflusso del tempo come rugiada al prato, come seme al campo torna quella strana magia che la mia bocca ha bevuto e a te mi ha legata per l’eternità.”( poesia A Bosaro, pag 8)
In “Paesaggi dell’anima” avvertiamo un profondo panenteismo e la nostra autrice Teresina Giuliana Pavan rivendica e trascende la metafisica stessa e in alcuni rilievi paesaggistici ciò che possiamo dedurre è l’immanenza di Dio Padre che è nella natura da Egli stesso creata e la trascende. La concezione della nostra autrice è matura tuttavia non risente mai di senilità e non è arcaica o obsoleta, ma si rigenera secondo la reminiscenza platonica di un “panta rei” eracliteo talché il suo “tornar ai sempiterni calli” petrarchesco ha l’effigie di un’evoluzione, i paesaggi di Rovigo non rimangono tali e quali nei suoi componimenti dunque addentrandoci nei mitici accadimenti noteremo dei mutamenti in stretta relazione al sentire della poetessa. Una velata nostalgia è la corolla che impreziosisce l’arcana velleità di avvenimenti tinteggianti da pennellate cangianti e talora fosche al pari della “polvere” e il secondo dopoguerra che traumatizzò i bambini e i giovani del secolo scorso. La malinconia risiede nei versi di questa silloge fregiando con un piacevole tepore questo capolavoro letterario in cui nello sfondo di questa empirea universalità ritroviamo scolpiti gli affetti più cari come la solerte e apprensiva madre e l’eterna gioia raggiunta dal padre. L’afflato sussurra il train d’union fra gli istanti del presente e i momenti esperiti che sono cornice del suggestivo passato cosicché dopo la frattura dualistica fra la memoria e la speranza, dovuta ad alcuni ricordi che potrebbero ottundere l’anima umana, vi è un punto di incontro, ossia una pietra angolare rappresentata dalla fede che fanno attraccare Teresina Giuliana Pavan a una nuova oasi d’armonia. Dopo una spasmodica ricerca di significato indagata fra i meandri più reconditi dell’Io si districano grovigli esistenziali attraverso i frequenti Daimon paesaggistici di questa fatica letteraria che travalica, perfino, i limiti o le distanze generazionali.
Sabrina Santamaria
Scritto da Sabrina Santamaria.
- Autore:
Silvia Marzano
- Titolo:
Ad ogni ora
- Casa editrice:
Genesi Editrice
(Recensione edita nel Bimestrale di arte e letteratura Le Muse-Direttrice Maria Teresa Liuzzo-Vicedirettore Davide Borruto)
(a cura di Sabrina Santamaria)
La poesia, come Essere Sommo, potrà mai raggiungere il punto infinitesimale della bellezza? Ci poniamo, spesso, questo interrogativo ogni qual volta ci accostiamo ai versi di chi carpisce l’Universale nel particolare; la nostra autrice Silvia Marzano si impegna a scovare meticolosamente quel viottolo smarrito, quell’essenza vitale divina che i nostri occhi miopi, per varie motivazioni, rischiano di obliare eternamente. La poesia non è, semplicemente, un fonema che diventa grafema con un significato connotativo, ogni testo poetico è una sinfonia decantata dal cuore del poeta con solennità, infatti è un afflato che ammalia e si ammanta di Eternità. “Ad ogni ora”(Genesi editrice) è un flatus vocis che allieta l’animo turbato e rievoca i ricordi di una mente pensante, è un monito della nostra poetessa a ripercorrere quei “sempiterni calli” leopardiani senza i quali il nostro sguardo sembra reificato e reificante, quindi in ogni momento, in ogni istante della sua vita l’uomo dovrebbe tornare all’archè, cioè a se stesso e alla maestosità intrinseca del vivere. In guisa di questa analisi poetica Silvia Marzano dona un alito vitale ai suoi scritti che divengono pregnanti di un’umanità vissuta, satura di emozioni e le sue opere trasmutano le banali regole generative della grammatica sfiorando le punte di un’estasi elegiaca e pleonastica. La nostra poetessa accorda note di liuto dalla sostanza eterea in questa ottica i suoi versi si abbracciano alla sua autenticità che afferra i palpiti esistenziali della sua ferrea volontà che non rinuncia alla genuinità del vivere. “Ad ogni ora” è una raccolta poetica dedicata al tempo che scorre inesorabile, quel Kronos che marca la caducità dell’essere umano e sfugge al suo controllo; l’autrice, per certi aspetti, rimpiange il tempo perduto dunque la sua infanzia e giovinezza, ma, d’altro canto, diviene un’alleata della sua linea spazio temporale decantandola come una risorsa e una ricchezza spirituale, quindi nelle sue espressioni il tempo è l’alterità primigenia con la quale Silvia Marzano si confronta e dialoga, al pari di una relazione buberiana Io-Tu, direi quasi un’arresa nelle mani paterne di un’Alterità, non intesa come estranea a noi, ma essa è quella millesima monade di noi stessi che rifiutiamo: “C’è ancora il vecchio glicine sulle arcate del pergolato ombroso e le fiorite generose ortensie. Labirintici tratti, illeggibili della siepe di mirto sono rimasti e tracce dell’aiuola dove mormorava la fontana. Si dondolano ora i bimbi sulle altalene. Antico e nuovo in un canto continuo.”(Casa Dassano, pag 67). Forse perché ci riconduce a un’intimità che noi vogliamo a tutti i costi denigrare? Quel conflitto interiore che l’uomo ha maturato nei secoli, cresciuto spasmodicamente insieme alla sua malvagità e al suo orgoglio, la riscoperta dell’antico della nostra scrittrice non è un mero ricordo del passato in sé e per sé, bensì trattasi di un’unione fenomenologica tra la ratio e i sentimenti umani all’apice di un’epochè husserliana: “Tenero è rispuntato l’elleboro di bosco che si credeva perduto. Forse ha ascoltato le mie parole intense, il rimpianto, e verdi piccole foglie timide sparse sono nate sulla terra bruna, dicono speranze di futuro ancora.” (Tenero è rispuntato, pag 33). Candidi amplessi carezzano l’anima del lettore, il quale travagliato dalla post-modernità, si appresta a deliziare il suo attimo mediante una raccolta poetica avulsa dalla retorica comune e dal logicismo imperante che calza a pennello nella odierna società che propone falsi miti e l’opulenza economica. “Ad ogni ora”(in ogni attimo della nostra vita) possiamo congedarci dall’immanenza e trascendere a una sfera sovrumana fra i meandri più reconditi del sublime.
Sabrina Santamaria
Scritto da Sabrina Santamaria.
- Autore:
Patrizia Somma
- Titolo:
Perle di luna
- Casa editrice:
Armando Siciliano Editore
Buongiorno carissimi scrittori, artisti e bookblogger!
Stamattina con immensa commozione vi segnalo l'immenente pubblicazione della raccolta di liriche "Perle di luna"(Armando Siciliano Editore) di Patrizia Somma. Questa inedita opera letteraria verrà presentata il 14 Marzo alle ore 11:15-12:15 presso l'Agriturismo "Il Sole e il Sale" a Capomulini(Acireale). Avrò l'onore di essere relatrice di questo evento letterario in cui interverranno Giusy Mintendi, l'autrice e l'Editore Armando Siciliano. Vi invito a segnare anche questa raccolta di poesia fra i vostri prossimi libri da leggere in quanto è sensazionale.
Scritto da Sabrina Santamaria.
- Autore:
Francesca d'Errico
- Titolo:
Bianco antico
- Casa editrice:
Aletti Editore
(Recensione edita nel Bimestrale "Le Muse"-Ottobre 2020: Direttrice Maria Teresa Liuzzo, Vicedirettore Davide Borruto)
“Bianco antico”(Aletti Editore) di Francesca d’Errico
(a cura di Sabrina Santamaria)
Assaporare il retrogusto antico e antichizzato di un mare pescoso di ricordi ci fa percepire un po’ di sana nostalgia congiunta all’amore spassionato per gli anni trascorsi ove l’information over load non esisteva e ogni utente traeva la propria conoscenza dalla carta stampata, il web ancora era solo rudimentale; essere ricondotti da una raccolta poetica in questo mantra del “chiare freschi e dolci acque” è maggiormente coinvolgente e rilassante, “Bianco antico” evoca delicatamente questa rivalorizzazione di un’epoca che le nuove generazioni potrebbero etichettarla obsoleta, superata o poco all’avanguardia. L’autrice Francesca d’Errico vuol far riscoprire ai lettori la genuinità del secolo scorso, io oserei asserire, ci rimembra la purezza di un tempo trascorso. Le poesie racchiuse in questa silloge trasmettono quiete, un senso di pace e, soprattutto di armonia con il tempo, negli anni del secolo scorso, scandito da una linea cronologica con un andamento lineare e distensivo caratterizzato dai punti di forza dell’epoca moderna e non postmoderna, come quella di oggi, che ci infligge standard di vita elevati e alla perenne incertezza esistenziale, economica e sentimentale infatti lo studioso Bauman, per primo, ha coniato la dicotomia fra mondo moderno caratterizzato dalla solidità e il mondo postmoderno di per sé liquido e incerto; la nostra poetessa, seppur velatamente, smaschera questo senso di precarietà divenuta, inconsapevolmente, una zavorra per l’uomo del secondo millennio. Questa raccolta poetica è breve di brossura, ma è profondamente ricca di contenuti e significati, fra l’altro Francesca d’Errico, con il suo animo da poetessa, si avvale di figure retoriche come l’iperbole e la metafora: “Svolto ed imbocco una magica sintassi fra sentieri di pietrisco. Accarezzo l’aria con illogica andatura delle gote in fiamme. Incustodita commozione di anonimo ristoro emancipato dall’inchiostro.”( Magica sintassi, pag 11). Oltre a ripercorrere i sentieri antichi, la nostra scrittrice scandaglia l’habitus nei meandri più oscuri della sua mente e non cela bensì, a volte, mette a nudo il suo stato d’animo, che a volte sembra un mare agitato a volte, invece, un oceano limpido in cui ci si può tuffare, basta avere un pizzico di fiducia nella recondita umanità che risiede in “Bianco antico”. Ogni sensazione di Francesca d’Errico è confrontata con paesaggi eterogenei e componenti di essi tanto è vero che in questa opera letteraria si annoverano titoli poetici “Coppa di marea”, “Rivoli d’acqua”, “Selvatiche fogge”, “Valle di genziane”, “Conchiglie”, “La scogliera”, “La medusa” e “La ginestra”. Nel libro traspare l’idea della limpidezza, della chiarezza anche perché l’autrice è genuina nelle sue espressioni, la sincerità alberga nei versi poetici di colei che non si nasconde dietro falsi schemi eruditi che comprimono e ghettizzano la poesia stessa, questa è un’altra ragione del titolo “Bianco antico”, il bianco è il colore della chiarezza e della luminosità quindi l’autrice scuote la polvere depositata nello scrigno dei suoi ricordi e decide di farli luccicare e brillare in una silloge dai toni soavi e sublimi. La cupidigia dei tempi attuali non ha divorato le pietre preziose dell’antichità(ricordi, stati d’animo, sensazioni, emozioni) che, come un tesoro, sono state ritrovate dopo decenni; senza memoria non possiamo vivere il nostro presente e nemmeno proiettare il nostro futuro dunque il passato è un patrimonio(antico, giammai vecchio) inestimabile dell’uomo contemporaneo, che costituisce l’acme e lo zoccolo duro di questa fatica letteraria sarà annoverata tra i capolavori della letteratura italiana di tutti i tempi.
Sabrina Santamaria
Scritto da Sabrina Santamaria.
- Autore:
Francesco Terrone
- Titolo:
Le sette parole di Maria
- Casa editrice:
I.R.I.S. Edizioni
(Recensione edita nel Bimestrale "Le Muse"-Ottobre 2020: Direttrice Maria Teresa Liuzzo, Vicedirettore Davide Borruto)
Le sette parole di Maria di Francesco Terrone
(a cura di Sabrina Santamaria)
Versi che bramano un amore autentico dai segreti anfratti dell’infinito non sono consuetudine di chi scrive, l’incommensurabile è meta degli eletti che si abbandonano alle loro elegiache o prosastiche elucubrazioni. Le pagine della letteratura contemporanea sono stracolme di espressioni ripetute, consuete e stereotipate, le poesie, spesso, sono carenti di sentimenti ed emozioni e i lettori rimangono con un senso di vuoto anche, subito dopo, essersi accostati. Il poeta Francesco Terrone cerca di scrivere testi carichi di contenuti e valori; egli si spinge ben oltre il mondo sensibile e la carnalità infatti l’ottundimento morale generato dal peso del nostro Io e del nostro corpo dovrebbe, quanto meno, trovare ostacoli, ma, in tantissime circostanze, l’immoralità pullula fra gli esseri umani. Il nostro autore, per certi versi, mediante la storia di Maria si discosta mentalmente dalle cattiverie di questo mondo, d’altro canto, però la magnificenza della beatitudine della Vergine potrebbe essere un mezzo di redenzione per l’umanità sempre più corrotta, d’altronde Maria è la prescelta da Dio perché è una donna pura, umile, mansueta e ubbidiente; le virtù di Maria madre di Gesù, sono l’esempio per antonomasia, soprattutto perché dimostrano che Dio Padre nei suoi infallibili disegni sceglie sempre uomini retti, mai stolti. Nella silloge “Le sette parole di Maria” il poeta tesse i suoi versi improntandoli sul miracolo più potente di tutti, ovvero quello della salvezza eterna dell’uomo attraverso la Crocifissione del Cristo, è come se l’autore raccontasse la grandezza del verbo che si è fatto carne come un sogno o una visione e il nostro allieta, così, i cuori dei lettori i quali, spesso, sono facili prede della morsa lacerante della frivolezza e pochezza di idee. Maria è protagonista della silloge tuttavia nell’ordito della trama ella non è la “Santa Vergine immacolata”, Terrone non la definisce neanche “Madre” bensì “mamma” dandole un epiteto che le conferisce un appellativo di donna quindi l’imprescindibile umanità di Maria non viene trascurata o messa in secondo piano; questa scelta comporta una presa di responsabilità non solo da parte dell’autore, ma, innanzitutto, dei lettori, giacché l’umanità di Maria dovrebbe farci riflettere che in quanto donna era sottoposta alle nostre stesse passioni dunque, alla sua stessa stregua, noi potremmo anelare alla purezza. Il titolo riprende la numerologia dantesca, noi sappiamo che il tre è il numero della trinità, è rappresenta la santità e Dante più volte nei suoi sonetti o nella Divina Commedia infatti il numero nove, in quanto multiplo del tre, è presente in molti elaborati danteschi; nel caso del nostro poeta il sette è l’aggettivo numerale cardinale che esemplifica al meglio gli attributi di Maria, come le virtù umane, tre sono teologali e quattro cardinali, tanto è vero che Terrone coglie i momenti esatti racchiusi nel Nuovo Testamento in cui Ella ha saputo dimostrare le sue virtù pronunciando delle frasi accorate e ripiene di ardore per l’opera di Dio e per il Suo progetto di salvezza. La trascendenza di Francesco Terrone è tangibile, il poeta è come un vaso che prende forma grazie al vasaio, egli desidera essere argilla affinché sia modellato dal Padre Eterno; egli non vuole affatto perdere la Fede in Cristo, unica ragione che, ancora, lo rende vivo e libero, in numerose poesie prevale in modo copioso il dolore, la sofferenza non solo personale, il suo pathos emotivo si frantuma in impercettibili frammenti, il poeta è consapevole dell’enorme sfracello morale in cui l’uomo si sta imbattendo senza una via di fuga lontano da ogni barlume di pentimento la creatura umana non si convince di peccato e appare sempre più disinteressata all’amore divino mentre la corruzione avanza e l'uomo non accettando la sua miserabile condizione non si umilia al Redentore implorando il Suo perdono. Di fronte a questa umanità debole e dall’animo pusillanime la poetica di Francesco Terrone si erge come un grido possente, una luce che si scaglia contro le tenebre. In questa notte disadorna di stelle al candore di una solitaria luna l’uomo può riscoprire i valori più autentici del vivere? Chi insegnerà l’amore? Lo dimostrò Gesù Cristo in croce e lo strazio lacerato e lacerante del nostro poeta non ne è immemore.
Sabrina Santamaria